Claudio Morandini

 

A che serve la musica? La musica più bella di questo mondo a che serve davvero? Non sa resuscitare i morti innocenti, non lava le colpe, non sa nemmeno dare sollievo se non a chi già è sollevato. A che serve la musica? A che serve?

Sono le riflessioni di Rafail Dvoinikov, il protagonista dell’ultimo romanzo di Claudio Morandini e non sono state scelte a caso, per iniziare questa nuova intervista.
Claudio e la musica sono legati a doppio filo. Un po’ perché il nostro autore avrebbe voluto fare “da grande” il musicista e un po’ perché, avendo poi seguito altre strade, ha deciso di dedicare comunque alla musica stessa gran parte della propria passione e del proprio tempo libero.
Rapsodia su un solo tema” (Manni, 2010) finisce così per essere una sintesi tanto lucida quanto affascinante di questa sua profonda dedizione.
E non solo. Perché alla domanda che tanto ossessiona Dvoinikov questo libro dà già una risposta palusibile e convincente: la musica può servire per… scriverne!
Ma andiamo subito a conoscere meglio il nostro ospite.

Allora, Claudio, se ti dicessi…

1) DVOINIKOV

È l’eroe del mio “Rapsodia su un solo tema” e l’autore della singolare composizione che dà titolo al romanzo. Vecchio, malato, quasi cieco, non scrive più musica, e vive isolato in una dacia dalle parti di San Pietroburgo. Ethan Prescott, un suo giovane collega americano animato da sincera devozione, vuole riportarlo alla vita, e gli fa visita per intervistarlo. Questa è la sostanza del romanzo. Dvoinikov ama conversare, sa lasciarsi andare, non rinuncia a malignità e sconvenienze. La sua vita è fatta di compromessi, rinunce, fughe, ma anche di coraggiose prese di posizione, amori, conquiste, ostinazioni. Non a caso, nell’etimo del cognome c’è (o dovrebbe esserci) un rimando a un’idea di doppio, di riflesso, di specchio.
La sua musica, apparentemente ossequiosa verso i dettami del regime, rivela in mezzo alla retorica programmatica molte cellule di libertà. La sua personalità è così forte da sfuggire a ogni forma di controllo, compreso quello esercitato dallo stesso Dvoinikov. Ho immaginato le sue composizioni come un mix tra Stravinsky e Shostakovich, con un po’ della prima Ustvolskaya.
Diversi lettori mi hanno chiesto (sottovoce) notizie più precise su Dvoinikov, perché Wikipedia non dice nulla su di lui. La cosa mi ha fatto molto piacere, non perché io ami ingannare il lettore, ma perché forse significa che Dvoinikov come personaggio è vero, vivo, e la sua musica, se esistesse, potrebbe davvero essere musica importante.

2) MUSICA

“Musiche”, verrebbe da dire: in “Rapsodia” ne ho messe moltissime, comprese quelle che detesto o non mi piacciono – ho attribuito sia a Prescott sia a Dvoinikov alcune mie idiosincrasie.
La musica è un mondo che osservo da sempre con attenzione e curiosità (osservo, e ascolto). Ho provato anche a praticarla, ma senza grande successo, suonando, leggendo, scrivendo. La musica richiede una dedizione e un impegno che non ero in grado di dare. Ora la ascolto, la colleziono, trepido per la perdita di quell’universo a causa della sordità e della maleducazione dei tempi presenti. Con “Rapsodia” mi ero anche messo in testa (un po’ presuntuosamente, forse) di raccontare il mondo della musica, e proprio quello della musica colta contemporanea, in apparenza più ostico, per farlo percepire meno lontano e più affabile, per farne sentire almeno un po’ la bellezza.

3) MANNI

Di Manni mi hanno sempre colpito la qualità del catalogo e la densità culturale delle proposte. Per me è l’editore della rivista “l’immaginazione”, del “Ritratto del Novecento” di Sanguineti, della “Autobiografia in do minore” di Bonaviri, degli splendidi racconti di Zanzotto, dei “Racconti atalattici” di Brignetti, delle ultime cose di Cassieri… Sono felice che Manni abbia creduto in un romanzo come “Rapsodia”, ambientato nel mondo (ignoto a molti) della musica contemporanea e gli abbia trovato un posto in una collana importante come “Pretesti”. Certo, è un posto di nicchia, come si dice. Ma non potevo chiedere di meglio, per un libro che nel giocare con le aspettative del lettore sembra disobbedire a molti luoghi comuni su come debba essere la narrativa di successo oggi.
La vita della piccola editoria di qualità ha spesso un che di eroico. Il confronto con gli interessi dei grandi gruppi editoriali deve essere duro, spesso frustrante. In Italia, poi, lo Stato non solo non aiuta l’editoria, ma sembra anche volerne ostacolare l’esistenza. Ma i piccoli e medi editori si dedicano ai libri e agli autori con una cura particolare, che i grandi non sempre sanno dimostrare.

4) LARVE

Il mio secondo romanzo era pieno di larve, sin dal titolo. Larve di maggiolino, sottoterra. Larve d’uomo, in superficie – nel senso di persone irrisolte, o sfuggenti, o in continua metamorfosi. E poi larve nel senso di spettri. Non che ci fossero spettri veri, ma il romanzo era popolato di personaggi che si comportavano come spettri, apparendo da chissà dove e scomparendo, strisciando lungo i muri, nascondendosi, in un tempo non chiaramente definibile.
Mi piace far muovere così i personaggi, come larve – mi pare un modo onesto per riprodurre l’incertezza della realtà. Paradossalmente, mi pare sia più realistico un approccio come il mio, che lascia diverse zone d’ombra, lavora sulle ellissi, sul non detto o sul non spiegato, sulla inestricabile ambiguità delle cose, sullo sfilacciamento delle storie, e riproduce così la nostra incapacità di comprendere fino in fondo quello che ci accade e quello che siamo noi e sono gli altri – piuttosto che un ottimistico approccio totalizzante, in cui tutto va incasellato al suo posto, sistemato per bene.
E mi piace sviluppare il tema della metamorfosi, mostrando personaggi soggetti a continui cambiamenti, di cui nemmeno loro sono coscienti.

5) SCUOLA

Insegno, va bene. Lavoro sempre con le parole, mie o di altri. Mi sono interrogato spesso sul significato che ha insegnare e scrivere – molti miei colleghi si dedicano a entrambe le attività e si pongono, immagino, le stesse domande.
Mettiamola così: scrivere significa per me trovarmi in una perenne condizione di allievo. Non solo perché ciò che scrivo passa al vaglio dei lettori, e prima di loro a quello dell’editore, o, che so, dei recensori. Ma anche, e soprattutto, perché sento l’importanza di avere dei modelli di riferimento forti, dei maestri da cui continuare a imparare – un po’ come Ethan Prescott fa con il vecchio Dvoinikov.
Questo mi fa guardare con una sorta di solidarietà ai miei allievi – siamo tutti più o meno sulla stessa barca.
Come vedi, evito di parlare della scuola di oggi, della desolante perdita di identità della scuola in Italia, dei continui attacchi alla scuola come luogo di libertà e di civiltà, dell’isolamento della scuola. Sarebbe un discorso troppo lungo, e ci starei pure male. Diciamo che vedo quest’altro punto in comune, tra scuola e letteratura: entrambe educano, o dovrebbero educare, alla complessità, alla pazienza dello sguardo, all’analisi, alla sfumatura, allo scavo, al dubbio anche.

6) RADIOCOMMEDIE

Ne ho scritte per anni e anni, soprattutto d’estate, per tutti gli anni novanta. La Sede Regionale RAI di Aosta allora investiva molto nella fiction, e io potevo contare su un gruppetto affiatato di attori, programmisti e tecnici.
Quell’esperienza mi ha insegnato a “tagliare” e montare le scene al punto giusto, a lavorare entro limiti ristretti (di tempi, di budget, di ruoli), e mi ha permesso di affinare l’arte del dialogo. Ancora adesso amo quel tipo di dialogo fatto di chiacchiericcio, pause, gaffe, fraintendimenti, insistenze, divagazioni, e appena posso lascio che i miei personaggi si intrattengano così, parlando svagatamente, e in realtà rivelandosi senza volerlo.

7) SANTI

Il progetto “americano” – ormai una chicca per collezionisti. Santi – Lives of Modern Saints, l’antologia di autori americani e italiani messa insieme con grande passione da Luca Dipierro attorno al tema di una possibile santità contemporanea.
Non dovrebbe sorprendere che il librone sia pieno di santi mancati, barboni, disadattati, bambini straniti, e manchi di santi veri e propri. Viviamo in un’epoca scettica, siamo scettici. Però l’antologia finiva per scovare, tra le pieghe di un’epoca così smagata, proprio alcuni barlumi di una possibile santità, casuale, rifiutata anche.
Il mio santo, nel racconto “Le dita fredde”, è un santone che ha perso le sue capacità, vive assediato dai devoti che reclamano guarigioni, si sente abbandonato da Dio, e non sa che il suo figliolo adolescente ha ereditato misteriosamente quei poteri e che li tiene per sé. In fondo era una storia di conflitto generazionale, con punte di allegra ferocia.
Il sacro mi ha affascinato un tempo – ho attraversato anch’io molti anni fa una fase diciamo controriformistica, che mi ha fornito spunti con cui campo ancora adesso. Ora, quando ne scrivo, ne indago il lato paradossale, da posizioni ormai saldamente scettiche.
Anche Aurora, la contessina visionaria il cui diario è citato in “Nora e le ombre”, il mio primo romanzo, era a modo suo una santa. Visitata da anime purganti che la costringono a pregare per loro con un’insistenza sempre più violenta, arriva al sacrificio di sé – o al termine di una deriva verso la follia. Il suo martirio suona paradossale proprio perché si colloca in un mondo ormai abbandonato da Dio.

8 ) UN VIAGGIO

Ogni tanto mi impongo di far viaggiare i miei personaggi. Una certa tendenza agorafobica mi spingerebbe a tenerli reclusi in interni piuttosto soffocanti, anche poco illuminati. Per correggere questa tendenza, via, aria!, li sbatto fuori di casa e li conduco in peregrinazioni di cui talvolta a essi stessi sfugge il senso.
Per ora, il mio personaggio che ha viaggiato di più è di sicuro Ethan Prescott, in “Rapsodia su un solo tema”; il suo è un viaggio iniziatico, in un certo senso, a ritroso nel tempo (aereo, treno, a piedi…), fatto per rimuginare, prendere tempo, contemplare o immaginare.
Ma i veri picari devono ancora arrivare – in “A gran giornate”, ancora inedito, è tutto un via vai verso luoghi sempre più improbabili – e chissà se arriveranno mai.
Ma forse mi chiedevi dei miei viaggi. Non sono avventuroso, no. Viaggiare mi piace, ma solo se posso contare su un’accurata programmazione di ogni aspetto – in questo mia moglie è preziosa. Negli ultimi anni abbiamo visitato grandi città europee, per abbuffarci di cultura e bellezza.

9) UN MOTTO

Ti confesso che questa è la domanda più difficile…
Scarto subito l’autocitazione, un po’ per pudore un po’ perché non sono un sentenzioso. La prima idea è di buttarmi sul tolle-lege alla Sant’Agostino (ci provo, infatti, con i libri che mi sono più cari: ma non ne ricavo niente di buono, o almeno niente di citabile qui).
Potrei cavarmela con qualche colta citazione coerente con le mie risposte precedenti (che so, il “Siamo tutti nani sulle spalle di giganti” di Alberto Magno, molto carino ma di recente piuttosto abusato, o il montaliano “La vita oscilla tra il sublime e l’immondo/ con qualche propensione per il secondo”).
Ripiego alla fine sul folgorante “Davvero?”
È l’ultima parola del libro che sto leggendo ora, “Sangue in sala da pranzo” di Gertrude Stein (nella traduzione di Benedetta Bini). Veramente la Stein, che detestava i punti interrogativi, ha scritto “Are they.” in risposta alla frase precedente (“No one is amiss after servants are changed.”). Ma in quel “Davvero?” della Bini io leggo tutto un mondo di curiosità e di dubbi, di petulanze, di rovelli, che in fondo è la letteratura.

10) PROGETTI

Continuare a scrivere, naturalmente, e continuare a lavorare sulla scrittura. Praticare ancora i racconti e i romanzi brevi, che amo per la loro consolante leggerezza, e intanto mettere da parte pagine e spunti per romanzoni più ambiziosi.
Un romanzo breve è in uscita a marzo per la collana “Inchiostro rosso” di Agenzia X: mi sono divertito, ne “Il sangue del tiranno”, a sparigliare le carte in un genere che non pratico spesso. Un paio di racconti sarà invece disponibile a giorni sul “Jukebooks” di Quinta di copertina. Poi c’è il progetto con Marta Raviglia, una splendida cantante non solo jazz, e Simone Sbarzella, le “Dodici variazioni sul sangue” (il nostro “Pierrot lunaire”, diciamo; io sarei l’Albert Giraud della situazione), di cui ad aprile si dovrebbe già ascoltare qualche brano in concerto.


Claudio Morandini è nato, vive e insegna ad Aosta. In passato ha scritto cicli di commedie per la radio e monologhi per il teatro. Prima del romanzo “Rapsodia su un solo tema – Colloqui con Rafail Dvoinikov” (Manni, 2010) ha pubblicato “Nora e le ombre” (Palomar, 2006) e “Le larve” (Pendragon, 2008). Il suo racconto “Le dita fredde” è stato incluso nell’antologia bilingue “Santi – Lives of Modern Saints” edita a Baltimora (Black Arrow Press, 2007). “Fosca – Una novella valdostana” si trova nell’antologia “Nero Piemonte e Valle d’Aosta – Geografie del mistero” pubblicata da Perrone nel 2010. Altri racconti sono apparsi su varie riviste.
Sul blog Letteratitudine anima con Massimo Maugeri il Dibattito su letteratura e musica.

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